Joker Face

Il film “Joker, Folie a deux”, instancabilmente sobissato da critiche e rimproveri di aspettative deluse, ha il coraggio di turlupinare il pubblico e declamare in punta di fioretto: Arthur Fleck è un grave malato mentale, senza redenzione né salvezza. Arthur cresce nella deprivazione, nella violenza domestica legata al degrado della condotta materna, senza ormeggi, senza un padre che incastri il quadro della sua vita dentro una cornice simbolica di senso. Un unico appiglio identificatorio gli regala (o lo relega in) un posto, che sa di destino, ed è condensato nelle parole della madre: “Mia madre mi diceva sempre di sorridere e mettere una faccia felice. Mi diceva che ho uno scopo: portare risate e gioia nel mondo”. “Happy” era il suo soprannome, così tanto incarnato da produrre un sintomo bizzarro, la fragorosa e iconica risata, pregna di angoscia, che testimonia l’incapacità del protagonista di inserirsi nel discorso collettivo e di parteciparvi col giusto “flow”, a tempo (paradigmatica è l’asincronia della risata del nostro, rispetto a quella scrosciante della platea, durante uno spettacolo di stand-up comedy). Quando ridotto a oggetto dell’Altro (del suo sguardo malevolo, della sua violenza ingiustificata) Arthur subisce la penosa risata, effetto di una montata pulsionale che non può scaricarsi altrimenti, mancando l’azione pacificante della parola nel ricucire gli squarci di “reale” (l’impossibile a dirsi) con trame di senso, orizzonte del quale non vi è stato dono da parte di una figura paterna, da lui cercata nella persona del Sig. Wayne e del conduttore televisivo, che avrebbe potuto ritargliargli un posto nel mondo come soggetto, non più appendice della madre. Il desiderio di Arthur, infatti, è quello di essere amato, ma non nella declinazione nevrotica che prevede l’impegno inconscio di scoprire cosa manchi all’ Altro per assumerne le sembianze ed, eventualmente, sottrarsi sintomaticamente in un secondo tempo alimentando la danza dei desideri insoddisfatti, bensì nell’accezione dell’essere visto, del non essere abbandonato e rigettato dalla madre, dai colleghi, dalla società, come uno scarto. Un altro aspetto peculiare è il corpo del protagonista, goffo, meccanico e innaturale nei movimenti, come se, visibilmente mortificato, fosse paradossalmente ingorgato da un eccesso energetico, un “godimento” non temperato e confinato alle zone erogene (risultato di uscita dal complesso edipico, che prima interdice e poi indirizza la libido).
Ecco ad un certo punto il giro di boa, e la speranza che si diffonde radiosa in chi assiste alla storia: “Happy-felice”, l’epitaffio granitico della sua tragedia, lascia spazio a “Joker-burlone”, nome proprio che ristabilisce una funzione attiva, dove la risata può essere goduta in una rinnovata commedia e il non-senso cavalcato con dissacrante ironia. Il corpo inizia a danzare, a fluire placidamente, ma con fermezza, nello spazio. Arthur si sente visto: “per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto. E le persone cominciano a notarlo”. “Joker” non è la genesi dell’antagonista di Batman sulla scia del disvelamento di una personalità autentica e primigenia, data una volta per tutte, che irrompe a discapito di un “Io” fragile e accroccato, ma la costruzione di un sintomo che funziona, un “Sinthomo” (concetto che Lacan elabora nel Seminario XXIII). Joker funziona, e, in “Folie a deux”, tutti attendono e acclamano il ritorno di questa apparizione salvifica, cavaliere del caos e demolitore di ipocrisie, simbolo di ascensione del disagio al rango di vessillo della rivoluzione (personale, più che collettiva). La sua rinascita è, in fin dei conti, la nostra. Nonostante gli sforzi di Harley Queen nell’alimentare questo delirio, al quale compartecipa, tutto sfuma in un corpo vessato, stuprato, degradato ad ammasso di carne dai secondini. Il trucco non tiene più, non regge le aspettative della folla, e del pubblico pagante in sala. Delusione. Una delusione necessaria, però, poiché vela quanto di perturbante c’è nella follia umana.
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